Statistiche web Giulia Ranzuglia racconta la sua Badwater 135 - IUTA Italia

IUTA Italia

Associazione Italiana Ultramaratona e Trail

Atleti e altri personaggi

Giulia Ranzuglia racconta la sua Badwater 135

Badwater 135: quando 39 ore sembrano un’Eternità (e un Attimo)!

Il 7 e 8 luglio 2025 a Badwater, nella Valle della Morte (USA), si è svolta la manifestazione denominata 39^ Ultramaratona di Badwater sulla distanza di 135 miglia, con tempo massimo di 48 ore, organizzata da Adventure Corps. Quest’anno si sono registrati 93 finisher (63 uomini e 30 donne) tra cui la marchigiana Giulia Ranzuglia, 53^ assoluta e 13^ donna con il tempo di 39h15’14”, che ci racconta la sua indimenticabile esperienza.

All’improvviso, dopo due mesi buoni, riesco finalmente a concentrarmi abbastanza da
mettere per iscritto qualche pensiero sulla mia partecipazione alla Badwater 135 dello
scorso luglio. Due mesi in cui ogni volta che qualcuno mi chiedeva: “Allora, com’è andata?”
rispondevo con un vago: “E’ stata dura” o un retorico eufemismo tipo “era caldino” e mi scuso
per questa troppa ‘superficialità’. A volte certe esperienze hanno bisogno di tempo per
sedimentare, per essere digerite. Non dico capite, perché alla comprensione piena forse non
si arriva mai. Ma non stiamo qui a filosofare…
La Badwater 135 è una gara di 217 km (135 miglia) che parte da Badwater Basin, a
85 m sotto il livello del mare – il punto più basso del Nord America – e arriva al Mount
Whitney Portal a 2.530 mdi altitudine, attraversando tre catene montuose della Death
Valley californiana per un totale di ca 4.450 m di dislivello positivo. Si corre tra inizio e
metà luglio, la data cambia leggermente di anno in anno per coincidere con il periodo della
luna piena.
Per candidarsi alla Badwater 135 servono requisiti specifici: Bisogna aver completato
almeno quattro gare di almeno 100 miglia, con almeno una corsa nell’ultimo anno, e
dimostrare di correre ultra di 100 miglia da almeno tre anni. E’ un percorso che come tanti
altri viaggi ultra richiede una determinata esperienza e preparazione. L’organizzazione
accetta esattamente 100 corridori all’anno tra i candidati qualificati.
Il 1° febbraio 2025 ero davanti al computer a seguire la diretta Facebook in cui Chris Kostman, il
Race Director della gara, annuncia i nomi degli ammessi. Quando ho sentito il mio nome, ho
esultato in un mix di emozioni. Ero stata selezionata per i 217 km della Badwater 135
attraverso la Death Valley. A luglio. Ed è stato proprio in quel momento che le farfalle nello
stomaco hanno iniziato a volare. Lo speravo, certo, ma quando diventa realtà è tutta un’altra
storia.
Da quel 1° febbraio a luglio è iniziata la vera avventura. Non solo allenamento – quello era
quasi la parte più semplice. Dovevo mettere insieme una crew di supporto (obbligatoria da
Regolamento), pianificare ogni dettaglio logistico, provare a capire che cosa più o meno mi
avrebbe aspettato a cominciare da come poter acclimatarmi al caldo. In merito alla crew di
supporto, alla Badwater non si può correre in autonomia. Non è permesso, e comunque in
effetti sarebbe follia pura anche solo pensarlo e assolutamente impossibile in pratica.
Dopo chilometri e chilometri di allenamenti, dopo gare corse e gare saltate a causa di una
stupida caduta a fine maggio, che mi ha fermato completamente per un paio di settimane e
poi fatto ricominciare quasi da zero, dopo nervi tesi, saltati e faticosamente domati e, non mi
vergogno a dirlo, anche qualche lacrima versata, dopo esattamente 20 sessioni di sauna in
un mese a 70°/80° in mezzo alle ‘sciure’ della profonda provincia marchigiana
nell’unico centro estetico con una sauna disponibile… eccomi alla linea di partenza.
Alle 8 di sera di lunedì 7 luglio 2025 mi trovo a Badwater Basin. Obiettivo cercare di portare
a termine i 217 km entro le 48 di tempo massimo. Certo, la partenza serale evita il
calore diretto del sole, ma pensare che la temperatura sia più fresca è un errore da novizi.
che ho capito subito. A un paio d’ore dalla partenza, la temperatura era ancora di 49° e
l’asfalto ancora bollente. Non mi piace esagerare, ma a quelle temperature in passato ci
hanno letteralmente cotto sopra un uovo per dimostrare quanto fosse caldo.
Nonostante tutto, l’adrenalina della partenza è potentissima. Incontri gli sguardi di altri
30/40 partenti (le partenze sono scaglionate in 3 ondate separate dalle ore 8 alle 10 di sera), che
come te hanno pensato che attraversare la Death Valley fosse un’ottima idea, l’energia è
elettrica e per i primi chilometri quasi ti dimentichi del caldo. Quasi!
Devo dirlo subito, chiaro e forte: senza la mia crew, sarei ancora là a cercare di fare amicizia
con gli scorpioni. Il mio team era composto da tre persone straordinarie, che meriterebbero
una medaglia grande il triplo della mia.
Mark, il capo crew, aveva già completato la Badwater come atleta – quindi conosceva sulla
propria pelle ogni singolo chilometro di avventura che mi aspettava – e aveva fatto parte di
diverse crew in passato. Egli sapeva esattamente come organizzare gli approvvigionamenti
prima e durante la gara, come sistemare tutto in macchina, quando fermarsi, cosa darmi,
come gestire ogni crisi. Le altre due crew, Liz e Jessica, sono ultrarunner con un curriculum che
mi fa sentire una principiante: entrambe avevano alle spalle traguardi in gare estreme, che io fatico a
immaginare. E nonostante tutta questa esperienza, erano lì con me. Avrebbero potuto correre la loro
Badwater, eppure avevano scelto di dedicare il loro tempo, la loro energia e la loro
competenza per aiutare me a vivere la mia.
Ci conoscevamo da una vita o avevamo corso altre gare insieme? Assolutamente no.
L’organizzazione crea un gruppo Facebook dove si condividono richieste e offerte di crew –
una specie di ‘bacheca degli annunci’ per matti che vogliono aiutare altri matti nel deserto.
Ci siamo prima sentiti per telefono, poi abbiamo organizzato delle videochiamate di team per
iniziare a conoscerci e pianificare la gara. E devo dire che si capiva subito che ci saremmo
integrati alla perfezione – quella sensazione quando capisci che le persone sono sulla tua
stessa lunghezza d’onda, anche se vi state vedendo per la prima volta su uno schermo.
Nonostante fossimo praticamente degli sconosciuti fino a pochi mesi prima, si sono tutti
mossi con una gentilezza d’animo e un’empatia che non mi sarei mai immaginata. Sapevano
che questa era la mia prima esperienza con una vera crew di supporto, e questo ha reso
tutto ancora più affascinante. Seguivano i miei input ─ anche quelli che forse nemmeno io
capivo davvero – e li integravano alla loro esperienza senza mai imporre il loro approccio,
valutando di volta in volta quello di cui avevo davvero bisogno. Capivano al volo, quando
avevo voglia di fare quattro chiacchiere e quando, in verità per la maggior parte del tempo,
preferivo procedere in silenzio come ormai sono abituata. Ma era un silenzio in compagnia,
quello bello, quello che non pesa.
Per le prime 42 miglia (circa 68 km), il Regolamento permette solo al van di seguirti
(che poi non tecnicamente seguirti, perché il Regolamento vieta il seguire a passo d’uomo i
podisti – giustamente altrimenti sarebbe un’indigestione continua di tubi di scarico e
rumore!). Ci accordavamo di volta in volta di vederci ogni tot chilometri per rifornirmi di
acqua, ghiaccio, cibo, bandane riempite di ghiaccio, che puntualmente si scioglievano in
pochi minuti, controllare come stavo. Lavoravano con una precisione da Formula 1: ogni
sosta strategica – reidratare, rifornire, rimotivare. E ripartire. Sempre ripartire.

Dopo le prime 42 miglia, il Regolamento permette di avere un pacer che può correre dietro a te (anche qua
il Regolamento è molto chiaro – il pacer dev’essere sempre dietro il concorrente) fino al
traguardo. Mi fa sorridere utilizzare la parola ‘correre’, perché sinceramente una parola
esagerata per descrivere il moto del sempre troppo goffo procedere in avanti che ha
caratterizzato le 39 ore di gara.
Una cosa dev’essere detta: la Badwater non è una corsa che intimorisce per il ritmo da sostenere,
come si calcolerebbe in altre competizioni. Onestamente, 48 ore di tempo massimo per 217
km sono ben superiori rispetto a tante altre ultramaratone equivalenti come
chilometraggio. A parte il primo cancello a 84 km ─ che devi raggiungere tra le 12 e le
14 ore in base all’ondata di partenza ─ i cancelli sono piuttosto ampi. Quello che fa temere
questa corsa è tutto il resto: la logistica, le temperature, il calore dell’asfalto, la gestione del
sonno, le tre (solo tre), ma infinite salite che non mollano mai per svariati chilometri ciascuna.
E poi c’è la secchezza del clima, che personalmente mi ha sorpreso incredibilmente. È vero
che da un certo punto di vista aiuta a gestire meglio la temperatura percepita, ma a me ha
fatto sviluppare un fortissimo mal di gola, che mi ha accompagnato per gran parte della competizione.
E il caldo ha pesato tremendamente anche sui muscoli. Dopo ‘soli’ 100 km si sono
irrigiditi al punto che non riuscivo più a staccare un solo passo di corsa, anche quando
magari avrei voluto. Non mi vergogno di dire che ho letteralmente solo camminato per tutti
gli ultimi 100 km di gara. Camminato. E va benissimo così.
In una corsa così lunga, quasi infiniti sono gli aneddoti che vorrei raccontare per descrivere il
vissuto. Ogni chilometro ha davvero la sua storia! Ma se devo sceglierne uno tra i principali,
è stato il momento di pausa al checkpoint di Panamint Springs, al 115° km.
Arrivo a Panamint Springs nel pieno pomeriggio della prima giornata, trascinando
letteralmente i piedi e fumante come un vecchio catorcio surriscaldato. Questo fondovalle si
è guadagnato la reputazione di essere la parte più ‘infuocata’ del percorso. Le temperature
possono facilmente superare i 50°. Anche se si trova a circa 600 m di altitudine
quando ci arrivi nelle ore di punta del pomeriggio dopo ore e ore di sole, sembra davvero di
stare in un forno. E io ero davvero cotta a dovere.
Era già da qualche chilometro che parlando con la mia crew avevo un chiaro obiettivo:
riposare e abbassare la mia temperatura corporea. Dal Regolamento sapevo che l’organizzazione
affitta ‘The Cottage’ ─ un alloggio con due camere da letto e un bagno ─ come stazione di
sosta per tutti i partecipanti. In quel momento, quel cottage mi è sembrato un palazzo reale e
soprattutto un palazzo reale ‘fresco’!
Dentro una delle stanze climatizzate faccio un pisolino di 20 minuti, che mi rimette al mondo.
La crew mi aveva preparato del purè di patate istantaneo ─ semplice e semplicemente
squisito – dopo ore che non riuscivo a mandar giù nulla di solido. Mentre io dormivo
beatamente al fresco, loro tre erano fuori nel caldo torrido a rifornire tutte le scorte: ghiaccio,
cibo, bevande, benzina e tutto quello che mi serviva per affrontare gli oltre 100 km,
che ancora mi separavano dal traguardo. Ma a quello ci avrei pensato al risveglio!
Confessione: durante le 39h15′ totali, ho dormito. Parecchio, considerando che
ero in una gara e per una podista delle retrovie come me, che deve considerare di arrivare
entro il tempo massimo e non ha molto tempo da ‘perdere’”’. Oltre al pisolino al cottage di
Panamint Springs, ho fatto altri quattro micro-sonni di 15 minuti ciascuno nel sedile anteriore
reclinabile dell’automobile. In quel momento, quel sedile mi è sembrato il letto a cinque stelle
più comodo che abbia mai provato e la crew mi doveva letteralmente scuotere per
svegliarmi al momento stabilito.
La gestione del sonno è stata sicuramente una delle criticità principali di questa gara.
Innanzitutto, partendo alle ore 8 di sera, arrivi sulla linea di partenza con già un’intera giornata
alle spalle. È vero, teoricamente potresti riposare durante il giorno, ma almeno per me non è
stato possibile – troppa adrenalina, troppi pensieri, troppa tensione. Insomma, non è stata
una partenza in condizioni fresche come quelle mattutine a cui ero solitamente abituata. E
poi ci sono due notti piene da affrontare. La prima notte passa relativamente bene – sei
ancora carica, hai energie, l’eccitazione ti sostiene. Ma la seconda notte? Ecco, quella è
tutta un’altra storia. Quella è quando il corpo e la mente iniziano davvero a presentare il
conto.
Quelle micro-pause sono state fondamentali. Non solo per il corpo – quello comunque
continuava a lamentarsi – ma soprattutto per la mente. Quando arrivi al punto in cui non
capisci più dove sei, cosa stai facendo, o perché continui a mettere un piede davanti all’altro,
15 minuti di shutdown completo possono letteralmente riavviare il sistema. Come
quando spegni e riaccendi il computer. A volte effettivamente funziona!
Quando il traguardo è di tutti. C’è una tradizione bellissima alla Badwater: l’intero team
attraversa il traguardo insieme al concorrente. Non è solo un bel gesto simbolico – è il
riconoscimento onesto e sincero che quello che hai appena fatto non è stato affatto un
successo individuale. È stato solo e soltanto uno sforzo collettivo.
Dopo 39h15’14” giungo finalmente al Mount Whitney Portal ─ un momento che avevo
visualizzato fin da febbraio! La mia crew è appunto con me ad attraversare il traguardo.
Quelle ore le abbiamo vissute insieme, ciascuno a modo suo: io a muovermi (più o meno)
sull’asfalto, loro a gestire rifornimenti, logistica e a tenermi in piedi nello spirito e nel fisico
quando serviva. Il loro tempo, l’energia spesa, le notti senza dormire, il caldo sopportato, e
soprattutto la loro capacità di credere che ce l’avrei fatta: tutto questo mi ha permesso di
arrivare fino in fondo.
Adesso che sono passati un paio di mesi, cosa mi porto dietro da questa esperienza? Oltre
alla medaglia/fibbia che resterà sempre ‘simbolo’ di una grande soddisfazione insieme a
un tempo finale al di sotto del tempo massimo, che in qualche modo ha stupito anche me
…ma queste sono solo “cose” e ‘numeri’… Quello che personalmente mi resta dopo
questa incredibile avventura è la scoperta concreta che la vera forza non è mai uno sforzo
solitario.
È sempre il risultato di persone che credono in te e ti stanno accanto anche quando soprattutto quando – stai lottando con qualche difficoltà, di qualsiasi tipo esse siano. È la
consapevolezza profonda che puoi andare molto, molto più lontano di quanto pensi, ma solo
se hai al tuo fianco chi è disposto a camminare (o correre, o trascinarsi) con te.
Praticamente, come nel caso della mia crew nella Death Valley, ma anche figurativamente
nella rete di relazioni che ci creiamo e alimentiamo quotidianamente nella vita di tutti i giorni.
Una ‘rete‘ che già mi aveva sostenuta nei momenti della preparazione ─penso a quando
quella stupida caduta di fine maggio mi ha fermata e ho dovuto trovare la grinta di
ricominciare, supportata da chi mi stava vicino e credeva che ce l’avrei fatta comunque. È
forse questa la lezione più grande che la Badwater mi ha insegnato: che nessuno arriva da
nessuna parte da solo, mai!
C’è un insegnamento ancora più profondo che la Badwater mi ha lasciato e forse è il più
difficile da accettare: imparare ad affidarsi completamente agli altri. Io, come forse altri
ultrarunner, sono abituata a contare su me stessa, a risolvere i problemi da sola, a ‘farcela’
con le mie forze. Ma lì fuori, nella Death Valley, ho dovuto imparare a lasciar andare il
controllo. A fidarmi quando il mio capo crew mi diceva: “Devi dormire adesso”, anche se la
mia testa voleva continuare a barcollare in avanti. A fidarmi quando mi mettevano in mano
del cibo che il mio stomaco non voleva, ma che loro sapevano che mi serviva. Affidarsi agli
altri non è debolezza ─ è una forma di coraggio diversa, forse più grande. È ammettere che
non puoi fare tutto da sola, che hai bisogno di aiuto, e che va benissimo così.
E infine, forse, la conferma che un po’ di sana follia è necessaria nella vita. Quella follia che
ti fa dire ‘sì’ a 217 km nella Death Valley nel mese più caldo dell’anno. Quella follia
che ti fa scoprire di cosa sei davvero capace quando smetti di pensarci troppo.
Chiudo qui il mio racconto della Badwater… forse troppo lungo e dai toni troppo
melodrammatici, ma è difficile parlare di un’esperienza così particolare senza farsi prendere
un po’ la mano! È un’esperienza straordinaria sotto tutti i punti di vista, questo è innegabile,
ma voglio sottolineare una cosa importante: è un’esperienza per persone assolutamente
ordinarie come me. Serve preparazione, certo, serve una crew incredibile, serve un po’ di
quella sana follia di cui parlavo. Ma alla fine, forse è proprio questo il senso: non serve
capire tutto, razionalizzare tutto.
A volte basta viverlo, portarselo dentro, e lasciare che
continui a insegnarti qualcosa anche a mesi di distanza. E magari, tra qualche tempo,
quando il ricordo della fatica si sarà un po’ sbiadito, mi ritroverò di nuovo a pensare a
qualche altra avventura. Perché, a quanto pare, è così che funziono.
Quindi grazie, come sempre, a tutti. A chi c’è con le scarpe ai piedi condividendo chilometri
e fatica, e a chi ci supporta ‘senza scarpe’, ma con presenza, pazienza e incrollabile fiducia.
È forse questa la lezione più grande che la Badwater mi ha insegnato: non solo che nessuno
arriva da nessuna parte da solo, ma anche quanto sia importante fermarsi a riconoscere e
apprezzare quello che abbiamo, ma anche quello che siamo e che siamo diventati nel corso
della nostro vissuto. La possibilità di correre, di spingerci oltre, di vivere esperienze che fino
a ieri ci sembravano impossibili – tutto questo non è scontato. È un privilegio che dipende da
tante cose: la salute, le opportunità, la nostra motivazione e soprattutto le persone che
alimentano i nostri sogni anche quando sembrano follie incomprensibili. E di tutto questo
sono profondamente grata.

P.S. Se state pensando di iscrivervi alla Badwater, il mio unico consiglio vero è questo:
trovatevi una crew che vi voglia davvero bene. Molto, molto bene. Perché dopo quei
chilometri, non sarete esattamente la versione più piacevole e profumata di voi stessi. E, altra
cosa importante: si può dormire anche durante le ultramaratone. Anzi, a volte è l’unica
decisione sensata che prenderete.

GIULIA RANZUGLIA

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *